El Màcio dè la Casèla.

El Màcio dè la Casèla abitava alla Casèla, una povera bicocca affogata nel verde, come un’isola sperduta nell’immensità dell’oceano.

El Màcio dè la Casèla. Leggende Bresciane

Ogni mattina all’alba si udiva immancabilmente il risonare secco dei suoi passi sul sentiero battuto che dalla Rassega portava alla cascina dei Barbóss alla Gabiana.

Traversava diritto la contrada e si dirigeva senza pentimenti verso l’argine del Mella.

Ci fu un tempo in cui la gente lo aveva seguito con apprensione, avendolo sentito dire: «Vo a négam!».

Ma una volta giunto al fiume, deluse i curiosi prendendosi beffa di loro dicendo: «No, oggi non mi annego: l’acqua è troppo fredda!».

Ora non più.

Poteva andare, senza codazzo, sedersi sulla riva, togliersi le sgàlmare, rimboccarsi i calzoni e scendere in acqua per guadare il torrente e approdare alla riva di Urago.

Di lì risaliva l’impervio pendio della Pendolina per la quotidiana
provvista di legna da ardere.

A sole alto, si appartava all’ombra di un rovere e consumava la frugale colazione: una fetta di polenta e una cipolla, oppure una crosta ammorbidita di formaggio o una cotenna di lardo.

Col carico del fardello in groppa scendeva guardingo, attento a dove metteva lo zoccolo, per non finire ribaltoni per lo scosceso sentierucolo scavato a mezza costa.

Quando la sua figura massiccia si stagliava sull’argine del Mella dalla parte di Urago, ecco scatenarsi la canèa della ragazzaglia che, impietosa, non gli perdonava d’essere lo zimbello della Gabiana e lo beffeggiava col solito ritornello:

«Màcio, Màcio el fa la Ugna
se ‘I sè grata 7 ga la tègna;
se 7 sè dita ‘I fa spiù:
el ga rat el patilù».

L’invettiva esasperava il Màcio che, gettato il fascio della legna a terra, prendeva a sassate i ragazzi per sfogare la sua collera.

Non di rado gridava loro, dall’alto dell’argine opposto:

«Screanzati gabianèi, un giorno o l’altro troverete chi vi farà pagare il fio della vostra insolenza! Oh sì, verrà pure chi vi raddrizzerà la schiena e vi insegnerà l’educazione!».

In verità, Màcio sognava qualcuno che impartisse un buona lezione a base di argomenti convincenti…

“in legno di faggio” (stagionato! aggiungeva con una punta di sollazzo!).

All’osteria del Brentatore l’aveva sentita per la prima volta, e subito le era piaciuta l’espressione usata da Gilèlo per augurare carezze lignee sul groppone dei recalcitranti.

Giorno dopo giorno, Màcio aspettava l’occasione che gli consentisse di prendere la sua rivincita sulla marmaglia dei denigratori.

Alla Casèla Màcio viveva solo: la sua esistenza solitaria aveva suggerito a Gilèlo – lo specialista in fatto di soprannomi, rinomato anche fuor
dalla Gabiana – di chiamarlo Màcio, stante la sua disponibilità.

Non diceva mai no a nessuno; sempre pronto a dare più che a ricevere.

E fu proprio Gilèlo a offrirgli il modo di uscire d’impaccio nei confronti dei
ragazzacci che lo tormentavano con le loro ripetute canzonature offensive.

Un bel giorno, i ragazzi della Gabiana attesero invano che Màcio
passasse per la contrada, per raggiungere la solita sponda del fiume di
casa.

Sornione, Gilèlo buttò là: «Màcio non può uscire dalla Casèla: è inchiodato là da un ostinato male ai piedi».

I delusi persecutori si riebbero presto e non lasciarono cadere la ghiotta occasione di angariare ulteriormente l’inoffensivo Màcio.

Raggiunta la Casèla cominciarono a tirare sassi contro la porta e le finestre, ripetendo beffardi una tiritera inventata per la circostanza:

«Pióf, piòf, piòf…
el Màcio ‘I voi fa’ Vòf:
ma a fai èl fa fadiga,
issé’l Màcio ‘I la fa mìga».

Ma non poterono ripetere fino alla noia il ritornello impietoso; all’improvviso la porta della Casèla si spalancò ed ecco farsi avanti, con piglio minaccioso, il Màcio, spalleggiato da due suoi pari, massicci come
roveri, armati di frusta.

Schioccando e sibilando le fruste si abbatterono come fulmini sui gropponi e sui polpacci dei parolieri di contrada che batterono in ritirata precipitosa, scappando a gambe levate verso la Gabiana, oppure
cercando scampo nella grande ortaglia degli Inselvini, oltre la Fiumicella…

Così, la buona storia del Màcio diventò leggenda, che sopravvisse nella memoria della Gabiana finché non irruppe, implacabile e omologante, la TV, giustiziera amara e ingenerosa delle storie popolari.

“El Màcio dè la Casèla .”

Tratto da ” Trenta Leggende Bresciane ” di Lino Monchieri

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