I quàter dè Ader.

La leggenda bresciana dei “quattro di Adro” fiorì nel tempo dei tempi, ma
ancora figura nel repertorio della Franciacorta.

I quàter dè Ader. leggende Bresciane

Ancorché diluita nella memoria locale, dopo la sparizione, per l’incalzare rapido dei tempi, dei tradizionali filò invernali, immancabili canali di trasmissione orale del folclore e del leggendario popolare.

Io la ricordo così come mi veniva narrata al tempo delle interminabili serate, al lume di lanterna, passate sotto il portico della Santella dei Busseni, ai Quarti di brughiera, a scartocciare le pannocchie di granturco.

C’era dunque, in quel di Adro, l’abitudine, ereditata dai costumi feudali del passato, di esigere un pedaggio da chiunque si fosse trovato a passare per il territorio dominato, appunto, dai quattro prevaricatori.

Non che il transito fosse vietato; a dire il vero, tra il grosso mercato di Rovato e il porto di Sarnico vigeva uno stretto legame che obbligava
gli interessati a percorrere l’unica grande arteria di collegamento che necessariamente toccava il centro di Adro.

Libero, dunque, il transito, ma altrettanto liberi, di una libertà imposta con la forza, i famigerati quattro di fare il bello e il cattivo tempo con i malcapitati di passaggio.

All’ingresso del paese, stavano le guardie del corpo di Alghisio, il più brutale dei quattro masnadieri.

Senza tanti complimenti, trascinavano il passeggero al cospetto del padrone che concedeva il permesso di proseguire a condizione che prima lavorasse per lui a suon di nerbate e con una gragnuola di frustate come unica paga.

Poco più oltre, lo sventurato viandante, uscito pesto dalle sgrinfie di Alghisio, cadeva nella trappola tesagli da Bonesio, un originale signorotto che si divertiva a tiranneggiare i poveracci costringendoli a lavori umilianti: lustrare gli zoccoli dei suoi cavalli, spargere letame nell’orto con le mani, camminare sulle mani, a testa in giù…

Gli pareva già d’essere magnanimo a lasciar proseguire, alla fine, indenni, i disgraziati finiti nelle sue mani.

A tre quarti di strada, ecco l’alt di Carusio, un losco figuro che la natura si era accanita a rendere ripugnante nei tratti e mostruoso nei comportamenti.

A chi gli cadeva nei lacci, che tendeva perfidamente al passaggio dei forestieri, riservava un’accoglienza memorabile: non avrebbe mai più dimenticato l’ospitalità di Adro, grazie alle raffinatezze di Carusio.

Sottoposto a mille soprusi, il viandante doveva mostrare buona volontà e impegno nel ripulire stalle e scuderie; nel riassettare cantine e solai; nel ramazzare corti e passaggi; nel tagliar siepi e ordinare viali d’accesso ai vigneti; nel maneggiare attrezzi e utensili vari…

Uno stillicidio di incombenze che rompevano la schiena e riducevano le forze al lumicino. Così, per giorni e giorni, a malapena sfamato con brodaglie degne di reclusi a vita.

Carusio non allentava la presa neppure in presenza di lavori ultimati.

Ne trovava sempre di nuovi, promettendo il rilascio e non mantenendo mai la parola data…

Sul limitare del confine territoriale, ecco il quarto compare: Dorasio.

Per uscire dalla terra di Adro era giocoforza pagare un pesante scotto anche a lui.

Alto, solenne, rivestito d’un’armatura fatta fare su misura dal celebre Landò da Mezzane, la cui fama aveva varcato le frontiere della Franciacorta, Dorasio si parava innanzi, maestosamente in sella, al viandante da taglieggiare ed emetteva la sua sentenza:

«Bagnerai la mia proprietà col sudore della tua fronte e guadagnerai la libertà soltanto a piacer del mio volere!».

Ci pensavano gli sgherri di Dorasio a spremere il povero viandante fino all’ultima fibrilla di energia, ordinandogli di scavare fossi, erigere muretti, tagliare alberi, segare legna da ardere, ammucchiare fienagioni, trascinare rifiuti…

Quando, finalmente, esausto e stralunato, lo sciagurato poteva riprendere il cammino, giunto in vista del golfo di Sarnico non credeva ai propri occhi, credendosi uscito da un incubo interminabile.

Il maleficio dei “quàter dè Ader” perdurò a lungo, nel corso dei secoli; così narra la leggenda, finché non fu suscitata una ribellione delle
popolazioni stanche d’essere tiranneggiate e sfruttate.

Unitesi contro la prepotenza dei quattro, le genti di Franciacorta, si dice guidate misteriosamente, ma visibilmente protette dagli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, si sollevarono e cacciarono a furor di bile i perfidi tiranni, restituendo alle terre amiche la pace e la sicurezza.

Da allora in poi, diluite nel tempo la crudeltà e la ferocia dei fatti, ogni volta che qualcuno si trova a dover prestare la propria opera gratis ed amore si usa dire che ha lavorato per “i quàter dè Ader”.

I più maliziosi aggiungono, ma questo non è provato dalla leggenda:

«lidio, chè quàder!
Gh ‘è nat via ‘n ludro,
ma gh’è riàt en làder».

“I quàter dè Ader”

Tratto da ” Trenta Leggende Bresciane ” di Lino Monchieri

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