I Fratelli di Farfengo.

I Fratelli di Farfengo è la leggenda che racconta di come l’avidità oscura anche i legami di sangue.

I fratelli di Farfengo Leggende Bresciane

Alla base del campanile di Farfengo, assicurano i vecchi, ancora agli inizi del secolo, si potevano leggere sette misteriose parole incise da mano sicura:

«El dù dè mago fioco ‘na gamba».

Al forestiero che incuriosito e divertito chiedeva lumi sul significato recondito della laconica frase, i saggi del luogo anziché rispondere a tono, raccontavano una leggenda che, secondo la tradizione locale, aveva dato origine alle sibilline parole scolpite là a far memoria d’un fatto straordinario.

Dice dunque la leggenda che un vecchio contadino, al momento del giudizio finale, chiamato a render conto della sua esistenza, lasciò ai suoi due figli, conosciuti come i Fratelli di Farfengo, una cospicua eredità, con la raccomandazione di mantenersi sulla retta via senza recar offesa né a Dio né al prossimo.

Il povero vecchio non era – come suol dirsi – da considerarsi ancora «sùer tèra» che già cominciarono i dissensi tra i due contendenti.

Una lunga e laboriosa mediazione d’un congiunto, ritenuto tra i probi del paese, riuscì a farli accordare sulla ripartizione dei beni.

Al maggiore dei due fratelli andarono i prativi per i pascoli e le stalle con
gli armenti.

Al minore, i campi coltivi, con i fienili e la cascina.

Sul vigneto, invece, non ci fu verso di ridurli ad una pacifica intesa.

L’uno e l’altro vantavano meriti e priorità, sicché, anziché sforzarsi
di appianare le divergenze, si ostinarono ad accampare diritti e ad avanzare pretese.

Tra odii e ripicche, la vertenza pervenne ad un insanabile punto
di stallo.

Il maggiore dei fratelli mise però in atto tutti gli artifici, per vincere la resistenza del rivale, ricorrendo anche ad azioni che la perfidia
rendeva sempre più odiose.

Così, sul disgraziato vigneto che sorgeva rigoglioso e prospero proprio a ridosso della pieve del borgo, si vennero a concentrare i fulmini
che, via via maledicendo, il maggiore augurava al minore perché abbandonasse l’idea di far suo il podere.

La leggenda non risparmia neppure il ricorso del maggiore alle
potenze infernali, con l’aiuto perverso delle quali, un anno il vigneto
patì una terribile siccità, l’anno che seguì dovette sopportare una disastrosa alluvione, l’anno dopo ancora una grandinata devastante, tutti flagelli che finirono per compromettere la produttività del terreno e la bontà dei raccolti.

Il minore sopportò tutto in silenzio, pregando in cuor suo che alla fine trionfasse la giustizia in base alla quale il vigneto avrebbe dovuto
essere suo, a motivo del fatto che, finché il padre era vivo, lui solo gli
aveva prestato aiuto, preferendo il maggiore sperperare tempo e denaro in gozzoviglie.

Con la pazienza e la tenacia apprese dal padre, il figlio minore sudando e sgobbando riuscì a far riprendere vita ai vitigni e a sognare una
ripresa che l’avrebbe ripagato delle delusioni patite.

Al colmo dell’odio, vedendo tutto ciò, il maggiore gli gridò:

«Invocherò da Belzebù una nevicata fuori stagione che seppellirà
te e il tuo maledetto vigneto sotto una coltre di gelo».

«Attento, fratello – si prese burla di lui il minore – la neve dovrà
essere così alta da superare la misura del ginocchio!».

A primavera inoltrata, la vigna, in pieno rigoglio, prometteva abbondanti vendemmie.

Il fratello minore, dimentico della minaccia ricevuta, spiava soddisfatto tra i filari le promesse del dovizioso raccolto.

Ma ecco, all’improvviso, la notte sul due di maggio, scatenarsi sul
paese un’eccezionale nevicata, invocata rabbiosamente dall’invidioso
fratello che, per affrettare i tempi e gli esiti del flagello, promise agli inferi la sua stessa anima, in cambio della vendetta sull’odiato rivale.

Come per volersi prender beffe della battuta del minore, la neve a
Farfengo raggiunse e superò la misura d’un metro («una gamba» si dice da quelle parti).

La vigna rimase in effetti sepolta sotto un fitto strato di neve; ma
quando il sole dell’alta stagione riuscì ad avere ragione dei cumuli nevosi, in un anfratto qualcuno mise allo scoperto il corpo senza vita del
fratello malvagio, morto assiderato, vittima del disastro che egli stesso
aveva invocato.

Il giovane sopravvissuto non soltanto riprese lena e lavoro per rimettere in sesto la sua terra, ma si ebbe pure in eredità la parte che era
spettata al fratello maggiore, morto solitario e senza famiglia.

A ricordo de I Fratelli di Farfengo è la leggenda che racconta di come l’avidità oscura anche i legami di samgue. conclude la leggenda bresciana, uno scalpellino della Bassa ebbe la pensata di incidere sulla pietra a pie’ del campanile le sette parole che tanto filo da torcere avevano dato nel tempo agli ignari che si trovavano, passando di là, a gettarvi uno sguardo distratto.

“I Fratelli di Farfengo.”

Tratto da ” Trenta Leggende Bresciane ” di Lino Monchieri

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