El Carli de’l Càregn – Leggende Bresciane
Il Càregno non aveva segreti per il Carli, robusto montanaro di Cesovo. Ne conosceva ogni anfratto, pili e meglio, delle proverbiali tasche.
Era ancora un ragazzino, quando il nonno e il padre gli avevano insegnato a usare la menàra, a far legna da ardere, a guardare le mucche al pascolo, a rastrellare il patoss per le lettiere della stalla.
Alla debita stagione imparò anche a preparare le aioli per la fumarole del carbone dolce di legna.
Via via che gli anni passavano el Carli cresceva rotto ad ogni fatica, pronto a tutto, esperto conoscitore d’ogni segreto dei monti e delle boscaglie. Il Guglielmo, la solida e compatta montagna di casa, vegliava sulla sua maturazione.
D’estate, lungo le pendici dell’Alpe domestica, Carli si cimentava nelle estenuanti sgroppate con le pesanti portantine cariche di fieno magro o con portarole su cui affastellava ingenti fasci di legna verde da seccare nel cortiletto di casa.
Passava la maggior parte dell’anno nella malga di Caregno, in un completo isolamento. Aveva appreso dalla natura il modo di vivere e di comportarsi, in un rapporto di reciproco rispetto.
Spiava i segreti del cielo e della terra, carpiva alle stelle e alle nuvole le avvisaglie delle mutevoli temperie, fiutava negli alberi e nelle erbe l’avvicendarsi delle stagioni, studiava il volo degli uccelli e interpretava il verso degli animali; tutto con disinvoltura e incanto, traendone avvertimenti ed auspici con la sicurezza che gli derivava dal privilegio di vivere immerso nell’ambiente che era parte essenziale della sua esistenza solitaria.
Una prima volta volle mettersi alla prova e, vincendo la riluttanza che frenava ogni tentazione, per non finire di inselvatichirsi scese a valle. Entrò in un’antica osteria di Brozzo, vicino al sonante scorrere del rapido Mella.
Squadrò ad uno ad uno gli avventori, per assicurarsi che non gli erano ostili, per leggere nel fondo della loro anima sentimenti e pensieri cordiali.
Reagì risentito, allorché un giovane ardito, a cui aveva risposto che veniva da Cesovo, osò commentare in dialetto, ridendo sguaiatamente: «Chè bèla frétada, con mèza donzéna dè òf!» (Cesovo, nel gergo locale suona proprio Sesdf, cioè «sei uova»).
Carli sentì montargli il sangue agli occhi: non amava gli scherzi, neppure quelli di parole. Gli sembravano privi di gusto prima ancora che offensivi. L’avventore replicò: «Non puoi permetterti il lusso d’impermalirti».
E senza acrimonia, continuò: «Tra poco andrai a vivere in caserma. Ne hai l’età. Non ti conviene prendertela ogni volta che qualcuno dice quel che pensa».
Avendo el Carli de’l Càregn mugugnato il suo dissenso, quello non si diede per vinto e proseguì: «Se vuoi vivere con i tuoi simili devi rispettare le regole del gioco.Piuttosto cerca di imparare a leggere e a scrivere, finché sei in tempo. Fatti venire la voglia; sarà tanto di guadagnato…».
Risalito in Caregno, il Carli passò alcuni giorni immusonito. Gli davano da pensare le parole dello sconosciuto di Brozzo. A bene riflettere non l’aveva mica offeso, dopo tutto. Anzi, il consiglio aveva un ché di prezioso.
A Cesovo, la vecchia maestra Almici, ormai in pensione da anni, lo accolse con prontezza e disponibilità. Vincendo la timidezza e il disagio, Carli, con il suo aiuto fece progressi e s’impossessò alla fine delle armi che, sole, possono sostenere l’impatto con il prossimo.
Fu contento, dentro di sé, in fondo all’anima, d’aver preso la decisione di imparare a penetrare anche i segreti e i misteri che si celano nelle parole scritte…
Venne il giorno in cui, alla vigilia del richiamo alle armi, la maestra di Cesovo congedò el Carli de’l Càregn con appropriate espressioni che gli suonavano come un viatico per il futuro che l’aspettava: «Continua a stare vicino alla natura, a fartela amica, a leggere dentro le cose…
Cerca di aiutare il prossimo, di non essere chiuso nell’egoismo che corrode e soprattutto accetta la tua condizione, senza invidiare mai quella dell’altro».
Come chiave di lettura dell’universo che stava per accoglierlo, con le sue insidie ma anche con le sue sorprese, la maestra volle raccontargli una leggenda che la saggezza antica aveva tramandato per più generazioni:
«Un’aquila reale, che si era fatta il nido sugli aspri speroni del Guglielmo, scese a volo verso la valle in cerca di cibo. Invano esplorò con la sua vista acutissima ogni anfratto, ogni cespuglio, ogni recesso.
Planando sul Caregno, scorse un corvo intento a cibarsi. L’accostò e domandò: “Amico, che stai mangiando?” “Carogne” rispose quello.
“Non fan par me” commentò l’aquila con sdegno. “Se ti ciberai di carogne camperai mill’anni” replicò il corvo. L’aquila, affamata, vinse la ripugnanza e si abbassò a strappare un brandello di carne putrida. Ma subito scostandosi disgustata riprese il volo dicendo: “Meglio vivere con la fame e campare meno, piuttosto che cibarsi di carogne”».